Data: Senza data



Luogo: s.l.

ID: LLET016211




(per l’Enciclopedia RICORDI)

 

TAMAGNO FRANCESCO

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(Torino 28 XII 1850 –

Varese 31 VIII 1905). Tenore

 

Un torinese di statura gigantesca, uomo rude e robusto, catapulta sonora vivente, tromba parlante: un vero “Armstrong” della cornetta umana, prodotta dalla violenta proiezione della corrente vibratoria sulle cavità nasali.

I suoi coetanei Gayarre, Masini, Stagno, Marconi provenivano dalla grande scuola dell’800, ch’ebbe per fondatore Manuel Garcia (il padre della Malibran). Questi insegno’ a Nourrit, il quale trasmise il segreto tecnico a Rubini e Mario de Candia. Dalla pleiade famosa non aveva nulla appreso la “tromba” torinese. E nemmeno da Tamberlik, discendente diretto di quel Duprez che, giovanissimo, restò senza voce. Tamberlik cantava con accorgimento e sapeva risparmiarsi per attingere il suo famoso “re bemolle”al di sopra del pentagramma: nota riprovata e detestata da Rossini, che invitava Tamberlik, quando il tenore si recava a visitarlo, a “lasciare in anticamera” quella nota presa a gola spalancata, e lanciata verso la base cranica, anziché verso le fosse nasali come usava Tamagno.

È facile comprendere lo stile di canto del Torinese che disponeva di due ottave sane, omogenee, schiette, le quali nel settore acuto acquistavano lo squillo tipico della cornetta, per la nota aguzza, di chiarissimo nitore quasi che provenisse da uno strumento d’acciaio. La nota, per di più, risultava ancor più acuminata, grazie alla dizione tanto scandita, da rinunciare al “legato”, così’ necessario nella esecuzione della melodia ottocentesca. Ciò è confermato dai dischi lasciati da Tamagno, e da lui incisi in piena maturità fisica, intorno ai 45 anni. A parte la registrazione rudimentale di quel tempo, che non permette di valutare coscienziosamente il timbro di quella voce, si può comunque rilevare quanto la dizione fosse aperta e sillabata, e il fiato corto, la frase spezzata, il ritmo arbitrario. A 45 anni l’ugola non si sarebbe potuta logorare in quel modo, se la tecnica respiratoria non avesse influito nocivamente sul mantice. La proiezione del suono, nelle cavità nasali implica una torsione dei raggi sonori sulla maschera facciale, escludendo le altre risonanze superiori. A lungo andare, la deviazione porta all’enfisema polmonare e al crollo di tutto il sistema vocale. (Ne abbiamo un esempio, in questi ultimi anni, nella prematura decadenza di due voci baritonali ben note).

Infatti, Tamagno, a soli 40 anni, già stentava a portare a termine una recita; a 51 anni smise di cantare, e a 54 anni morì, a Varese, nel 1905. Il colosso dalle note sensazionali, che facevano tremare i lampadari, era crollato. Colosso dai piedi di creta. E la creta era quel sistema di respirazione e di concentrazione di fiato spinto con irruenza eccessiva, alla quale nessun organismo, per quanto esuberante, può resistere a lungo. Energia fisica, sì ma guidata e sorretta dall’energia mentale e, soprattutto spirituale. Senza di che le macchine a percussione sonora si guastano, senza speranza di recupero e di riparazione.

Se si vuole la precisa critica del canto tamagnesco, basta leggere la analisi di un insospettabile osservatore: Giuseppe Verdi. Il quale era tutt’altro che ben disposto ad affidare “Otello” alla voce del torinese, la cui fama, in quel momento, non era punto superiore a quella dei suoi già menzionati coetanei. Si era detto che Verdi avesse scritto la grande opera pensando al tenore dagli acuti stentorei. È lo stesso autore a smentire i male informati. Tamagno aveva, sì, proposto al Maestro la autocandidatura di protagonista. In una lettera a Giulio Ricordi, Verdi ne parla a chiare note: “Anche per i tenori voi trovate tutto facile ed io molto difficile. Io non ho scritto né pel tale, né pel tal altro artista, ed ora, osservando quella parte che ho fatto, non trovo chi mi conviene … In molte cose andrebbe benissimo Tamagno, ma in moltissime altre no. Vi sono frasi lunghe, larghe, legate che vanno dette a mezza voce: cosa impossibile per lui … ”. La citazione valga a dimostrare che col modo di cantare a scatti, a sbalzi, a squilli, a Tamagno non era possibile rendere malleabile il suo acciaio vocale, piegare i suoni al canto legato, alla modulazione ampia, all’espressione della parola sul tenue filo del soffio, che dà la mezza voce e l’arcata sonora, concentrata e sostenuta. Avrebbe potuto vincere – come vinse – nella espressione fisica della gelosia scatenata, che si risolve nella epilessia al termine del terzo atto. La prestanza delle membra fece il resto e la leggenda di Tamagno-Otello venne fuori. Ma il duetto d’amore del primo atto, che termina in sublime lirismo, si risolveva in faticosa tensione, manifesta nell’intonazione approssimativa di quei “la bemolle” nella frase conclusiva: “Venere splende”.

Eseguendo il “Trovatore”, il “Guglielmo Tell”, il “Poliuto”, la “tromba parlante” aveva i momenti migliori nelle cabalette (“La pira”, “Corriam, voliam”, “Lasciami in pace vivere ormai”), ma poi cedeva nel canto sostenuto delle melodie precedenti (“Ah, si ben mio!”, “O muto asil”, “Lasciando la terra”). Insomma Tamagno fu tenore di tipo “eroico” e “drammatico”, che nell’ “Otello” verdiano creo’ il mito del leone ruggente.

Per molti anni, i più noti tenori del ‘900 non osarono affrontare la parte del “Moro”, per timore dell’inevitabile paragone. Poi il ricordo della voce prepotente andò via via svanendo, e soltanto qualche tenore di corta estensione baritonale si decise a riprendere lo spartito. Con i nuovi interpreti il personaggio del “Moro di Venezia” perdette i connotati: non piu’ acuti smaglianti e gagliardi, dizione incisiva, voce balenante nelle due ottave; ma suoni oscuri e duri, emissione tubata, scarsa estensione, declamato greve, canto involuto, azione scenica movimentata fino all’inverosimile, allo scopo di supplire, con l’esteriorità, alle insufficenze [sic] vocali.

 

I pubblici delle nuove generazioni non conobbero il personaggio tamagnesco, scomparso dalle scene alla fine del’800. Oggi dopo 60 anni, troverebbero per lo meno strano un nuovo Tamagno: l’Otello di pura tempra tenorile e di lapidaria declamazione che mandò in visibilio la Scala e gli altri grandi teatri d’opera europei. Tamagno eseguì anche l’“Aida” e le nuove edizioni del “Don Carlo” e del “Simon Boccanegra”, oltre a qualche opera verista (Andrea Chenier). Tentò anche cimentarsi nella “Traviata”, allorché s’accorse di dover trattare l’ugola con una certa delicatezza ed estrarre dall’acciaio l’aureo metallo della mezza voce. Ma ormai era tardi .

 

Giacomo LAURI VOLPI

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Lett. - M Corsi, T. il pgrande fenomeno canoro dell’Ottocento, Milano 1937; A. Lancellotti, F.T., in “Le voci d’oro”, Roma 1942; E. Gara, FT., in “La Scala” gennaio-febbraio 1954, n. 50-51; F. Candido, [****] grande romantico, ivi 1957, n. 87.

Trascrizione di Alessio Benedetti, Maurizia Pelaratti
Persone citate
Francesco Tamagno

Tipologia lettera
Sottotipologia lettera
Scrittura dattiloscritto
Lingua italiano

Medatadati Fisici
Nr. Fogli 2
Misure 285 X 225 mm

Lettera titolo LLET016211