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I copialettere aziendali riservati di Giulio Ricordi
Gabriele Dotto

«Immaginatevi un uomo che ha cento cose cui attendere. Industriale, eccoti lo stabilimento colossale da vigilare; editore, eccoti contratti importantissimi da stipulare e più ancora da far rispettare, poi oggi le prove alla Scala, domani la messa in scena di uno spartito. Aggiungete al materialismo dell’uomo d’affari la tempra artistica del compositore, che sente insistente nella fantasia le ispirazioni fresche, originali della sua musa […]»

 

Questo breve e lusinghiero ritratto di Giulio Ricordi (1840-1912) è tratto da un capitolo a lui dedicato in un volume di saggi su personalità eminenti dell’ambiente letterario, scientifico e artistico milanese edito nel 1884.[1] L’ammirazione suscitata da Giulio si estendeva tuttavia ben oltre i confini italici: in un periodico londinese del 1888 si legge infatti che «il Signor Giulio Ricordi, come tutti sanno, oltre che ottimo uomo d’affari è anche valentissimo compositore»;[2] la rivista «The Graphic» del 18 febbraio 1893, dedicata alla prima mondiale scaligera di Falstaff, presenta un’illustrazione a piena pagina dove, in alto, si vedono i ritratti dei tre personaggi chiave dell’impresa: accanto al librettista Arrigo Boito e al compositore Giuseppe Verdi campeggia, proprio al centro, la figura di Giulio Ricordi; e quando, nel 1912, Giulio viene a mancare, il «New York Times» riserva al suo necrologio un’intera colonna. Pochi editori musicali (anzi, forse nessun altro) hanno occupato una posizione tanto influente, o goduto di una fama paragonabile, anche presso un pubblico non specializzato e, oltretutto, internazionale. È dunque particolarmente affascinante poter esaminare, accanto a tanti altri documenti relativi all’attività commerciale e industriale custoditi nell’Archivio Ricordi, i due volumi del copialettere ‘riservato’ usato dal gerente (o dai suoi diretti subordinati), che trattano, in parte, questioni di una certa delicatezza. A dire il vero, dal momento che non tutte le 280 lettere contenute in questi volumi hanno a che fare con questioni a carattere riservato, non è del tutto chiaro, per noi oggi, capire per quale ragione alcune di esse compaiano proprio qui, anziché nei copialettere ‘normali’ della casa editrice. Anche in questi ultimi, infatti, accanto a lettere concernenti le più diverse problematiche relative alla gestione quotidiana di un’impresa (un tipo di lettera che appare del resto anche nei copialettere ‘riservati’), si incontrano talvolta lettere di contenuto riservato (lamentele a proposito di terzi, solleciti a compositori ritardatari, e così via), le quali, se rese pubbliche, avrebbero potuto causare un certo imbarazzo.

Lo specifico arco di ventidue anni ricoperto da questi copialettere ha forse qualcosa a che fare con il motivo che ha indotto a generarli. La raccolta incomincia nel 1888, subito dopo la trasformazione di quella che era stata per otto decenni un’azienda di gestione famigliare in una compagnia con soci[3]— sebbene non ancora una vera e propria società per azioni nel senso moderno (la Ricordi sarebbe divenuta, in parte, tale solo dopo la prima guerra mondiale, con Giulio da tempo scomparso). Le lettere che trattano di richiami agli impiegati, di assunzioni e licenziamenti, di lamentele per negozi e filiali gestiti con poca grinta o di rimostranze per un lavoro eseguito in modo negligente (dalle maestranze, dai dirigenti, o da terzi sotto contratto, come lo studio d’architettura cui vennero affidate la progettazione e la costruzione delle nuove officine in periferia) riflettono categorie di problemi che probabilmente il Gerente Giulio preferiva evitare di sottoporre all’attenzione dei Soci. E certamente non era destinata alla lettura di terzi la lettera dal tono scherzoso e sboccato inviata a Puccini nel novembre 1895, con i suoi versi boccacceschi faux-Bohème, così come le lettere a un avvocato contrassegnate “private”, o le ultime lettere al figlio Tito II, qui incluse, con le loro severe rampogne. Eppure, si trovano pur sempre tra i documenti ‘ufficiali’ aziendali, da archiviare. Quali fossero gli obblighi precisi per la conservazione (e, all’occorrenza, la concessione in lettura a terzi) di tali documenti è materia che andrebbe attentamente esaminata. L’anno in cui questa raccolta si chiude, il 1909, corrisponde all’anno in cui il direttore della casa editrice da anni antagonista di Casa Ricordi, Sonzogno, decide di non occuparsi più di editoria musicale e affida la gestione ai nipoti, molto meno aggressivi di lui. Ma potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza, come pure potrebbe essere una coincidenza il fatto che l’anno d’inizio della raccolta, il 1888, corrisponde ai mesi di poco precedenti la stipula dell’acquisto dell’altro rivale di lunga data, Casa Lucca (con la sua redditizia esclusiva italiana sulle opere di Wagner).

La quantità di lettere raccolte in questi due volumi descrive una parabola discendente: dall’apice di cinquantaquattro nel solo anno 1888 alla singola lettera del 1908, alle cinque del 1909. Per la stragrande maggioranza, vi si tratta di questioni commerciali e di faccende interne aziendali. Ma, prese nel loro insieme, esse offrono al lettore moderno un quadro estremamente rivelatore delle problematiche inerenti la gestione quotidiana di un’azienda grande protagonista dell’«industria dell’arte» fin-de-siècle.

Solo pochi anni prima della redazione di questi copialettere riservati, la ditta aveva fatto un consistente investimento nelle nuove officine di produzione e nei nuovi magazzini in Viale Vittoria a Milano. Proprio nell’anno del trasloco (1884) il succitato libro di Spech descriveva le condizioni del palazzo che per anni aveva ospitato tutte le attività dell’azienda, e dei suoi spazi divenuti ormai troppo stretti:

«Questa casa Ricordi in Via Omenoni, dalla facciata signorile, è tutta una sorpresa. Se aprite quelle imposte che vedete ai lati della corte, eccovi un archivio immenso di musica: lastre incise, pezzi stampati, magazzino carte, casse. Se entrate invece per quella porta a vetri smerigliati là in fondo e su cui stanno incisi i tre famosi anelli della casa, eccovi lo stabilimento industriale; le macchine litografiche, tipografiche, un centinaio d’operai. Macchine e operai alla vigilia però di passare nel nuovo stabilimento fuori porta Vittoria.»[4]

La mole di quell'investimento doveva ancora pesare in modo significativo quando fu concluso l'acquisto di Casa Lucca nella primavera del 1888, e negli anni successivi, quando la Ricordi continuò ad espandere la sua rete di negozi e filiali.[5]

Il percorso descritto dalle ventitré lettere al figlio Tito rivela tutta la difficoltà di un rapporto che mescola, in modo talvolta scomodo, i rapporti gerente-subalterno con la relazione padre-figlio. Fino a che punto le crescenti lamentele di Giulio sulle carenze manageriali o le tendenze spendaccione del figlio rappresentino effettive mancanze, e fino a che punto invece siano il riflesso di un conflitto di vedute generazionale su come dovesse evolversi l’imprenditoria editoriale musicale in quel complicato passaggio di secolo, è materia che meriterebbe di essere approfondita. Questa ‘tragedia dinastica’ (come da qualcuno è stata definita)[6] nacque, da un lato, dalla contrapposizione fra l'appassionato interesse del figlio e l'estrema cautela del padre nei confronti delle nuove tecnologie di trasmissione (il grammofono e il cinema sincronizzato alle incisioni audio[7]) che irrompevano nel panorama commerciale e artistico, e, dall’altro, dalle forti riserve che Giulio nutriva nei confronti dello stile manageriale di Tito. Nello sfogo conclusivo di Giulio (5 luglio 1907: che effetto devastante deve aver avuto, per un figlio, ricevere una simile lettera…) trapela, accanto alla rassegnata presa d’atto paterna che forse la successione dinastica stava effettivamente volgendo al termine, anche il sottaciuto rammarico per il peggioramento, e forse l’imminente scomparsa, di un certo mondo musicale e commerciale. E tuttavia, negli anni immediatamente successivi a queste lettere il lavoro di squadra di padre e figlio, nel segno del collaudatissimo metodo imprenditoriale Ricordi, avrebbe prodotto successi trionfali. Lo testimoniano queste parole del «New York Times»[8] circa il ruolo fondamentale svolto dall'editore nell'assicurare il successo della ‘prima’ della Fanciulla del West al teatro Metropolitan:

«Per la rubrica ‘Business’, mettendo a confronto la carriera di Strauss e quella di Puccini, il cronista del «Musical Courier» commentava: «Il successo di Puccini è ancora più travolgente e completo perché egli beneficia del sostegno materiale e morale di una forza commerciale enorme, una forza sulla quale nessun altro compositore vivente può contare: la casa editrice Ricordi. Con un’energia unica e una perspicacia mercantile senza pari nel suo campo, la ditta Ricordi sostiene Puccini a un livello che resiste alla concorrenza? e la sconfigge. […]

Quanto ai compositori francesi, invece, ci si trova solo letargo e indifferenza; quando fu eseguita qui da noi un’opera di Debussy né il compositore né l’editore si sono presi la briga di seguire la produzione, e anche per l’opera di Debussy programmata a Boston non ci si aspetta alcuna iniziativa da parte del suo editore Durand. Allo stesso modo, né Huegel né Choudens, i ricchi editori parigini, hanno fatto alcuno sforzo a sostegno delle opere di Massenet o di altri compositori francesi presenti nel loro catalogo, quando vennero eseguiti davanti al nostro pubblico.

Questa travolgente energia commerciale italiana sfrutta ogni occasione, e rivela un genio mercantile che mette completamente in ombra i nostri editori americani. È questo notevole insieme di questi due fattori che, sfruttando come suo mezzo tutto ciò che è di moda, rende quasi impossibile per altri compositori d’opera prosperare qui [negli Stati Uniti] o in Inghilterra, e che dunque mantiene il controllo sul repertorio dei compositori viventi.»

Grazie all’impulso dato da Casa Ricordi, si dice che, se tutto va bene, Puccini guadagnerà dalla sola Fanciulla del West più di quanto abbia guadagnato fino ad ora Richard Strauss con tutte le sue opere, che comprendono titoli sensazionali come Salome e Elektra.

Il Königskinder di Humperdinck fu allestito al Metropolitan in prima assoluta poche sere fa. “Ma dove è l’editore?” si chiede il Musical Courier. “Il mondo musicale non conosce nemmeno il suo nome. E verrà da Parigi Dukas, compositore di Ariane et Barbe-bleue? Verrà il suo editore? Questo suo editore sta dimostrando anche un minimo di interesse nella produzione dell’opera di Dukas? Ricordi invece è qui, sul posto, sorveglia con cura ogni mossa. Gatti-Casazza [sovrintendente del Metropolitan], Toscanini, Caruso, Amato, Puccini e Ricordi rappresentano una forza compatta, che lavora verso una meta comune.”»

L'«uomo Ricordi» in situ a New York, arrivato da Milano per assicurarsi che tutto si svolgesse nel miglior modo possibile, era Tito II.

Negli anni in cui furono stesi questi copialettere un vortice di problemi, sia aziendali sia di natura sociale e industriale, ribolliva in sottofondo, ma nella corrispondenza ve ne sono scarse tracce. A meno di non leggere tra le righe: le lamentele di Giulio sulla scarsa produttività dei vari negozi o filiali potrebbero essere il riflesso di un generale andamento altalenante dell'economia italiana in quegli anni. Nel 1895 i tipografici della divisione di produzione libraria della Ricordi entrarono in sciopero (notizia accennata solo di sfuggita, all'inizio della lettera N. 186 del 10 novembre); la direzione scelse la linea dura: rifiutò le pretese dei lavoratori e li licenziò in blocco (45 impiegati in tutto), chiudendo l’intero reparto.[9] Inoltre, durante gli anni Novanta dell'Ottocento il più prestigioso teatro italiano, La Scala – uno dei clienti principali di Casa Ricordi – entrò in una precipitosa spirale economica negativa quando il municipio di Milano ridusse progressivamente il sostegno finanziario al teatro.[10] Una situazione chiave occupa invece un posto di particolare rilievo in queste lettere: la battaglia con Casa Sonzogno, sia sulle questioni di diritto d'autore sia sulla programmazione teatrale. Lungo tutta la storia di Casa Ricordi i continui tentativi di usurpazione dei diritti da essa detenuti – si trattasse di controversie sui tipi e la quantità di diritti o sui territori nei quali tali diritti fossero assegnati alla Casa in esclusiva, o di questioni di palese pirateria – rappresentarono un grattacapo costante. Già il fondatore della Casa, Giovanni, dovette, per questo motivo, ingaggiare lunghe battaglie giudiziarie contro Casa Lucca, contro Casa Artaria & C. e contro diversi impresari (e, a onor del vero, in almeno una occasione, ai primi dell'Ottocento, fu Casa Ricordi ad essere accusata di tali comportamenti disonesti).[11] L'«affare Sonzogno» occupa l'attenzione di Giulio fin dalla prima lettera di questa raccolta, il che, assieme al fatto che a Sonzogno era affidata la gestione delle stagioni di diversi teatri (non solo La Scala),[12] fa sì che l'editore rivale ricompaia in altre quattordici lettere. Le continue controversie sui diritti d'autore non passavano inosservate nemmeno oltre confine: suscitavano accesi dibattiti sull'estensione della protezione dei diritti, e tali dibattiti venivano senza dubbio seguiti con grande attenzione da editori, amministratori teatrali ed esperti legali in molti Paesi. Sia Casa Ricordi sia la Sonzogno fecero circolare opuscoli che argomentavano le rispettive posizioni, e a un certo punto un periodico londinese fornì ai propri lettori il seguente riassunto:

«Persino in Italia, paese al quale a detta di alcuni si sono rifugiate le Muse e dove oggi queste trovano riparo dall'atmosfera cupa del secolo diciannovesimo in attesa dell'alba di tempi migliori, la virtù della generosità non ha trovato un suo stato ideale (per quanto scomodo), com'è dimostrato dalla battaglia attualmente in corso tra il Signor Sonzogno, proprietario de «Il secolo», e il Signor Ricordi, su una questione di diritto d'autore. Il primo dei signori sopraccitati avrebbe, a quanto pare, pubblicato edizioni economiche delle opere di Cimarosa, Rossini, Donizetti, Meyerbeer e altri facendo leva sulle vecchie leggi sul diritto d'autore, le quali limitavano il periodo di protezione a trent'anni. Nel frattempo, tuttavia, è stata emanata una nuova legge che estende fino ad ottant'anni il periodo di protezione, ed è in base a questo principio che il Signor Ricordi rivendica il diritto su diverse delle opere pubblicate da Sonzogno, e ha intentato una causa contro di lui. Non pago di tali contromisure, Ricordi si è messo a pubblicare le stesse opere a un prezzo ancora inferiore, cosicché non appena Sonzogno, annuncia un’edizione al prezzo di 25 centesimi, Ricordi pubblica la stessa edizione a 15 centesimi. Tale politica suicida ha portato Sonzogno di conseguenza, ad abbassare il prezzo delle stesse opere a 5 centesimi. Naturalmente è triste pensare a quanto tarda il millennio ad arrivare al mondo musicale, ma anche con tutto ciò, ci saranno senz'altro delle persone incivili che sperano di veder vendere anche in Inghilterra spartiti d'opera per cinque centesimi.»[13]

Nel suo giornale di ampia diffusione «Il secolo» Sonzogno coglieva ogni occasione per parlar male delle nuove opere edite da Ricordi, ed è inoltre generalmente sospettato, tra gli studiosi odierni, di aver orchestrato ad arte il fiasco della prima di Madama Butterfly alla Scala nel 1904.[14] C'è dunque poco da sorprendersi se il suo nome appare più volte in questi copialettere.

Altro nome che compare frequentemente – in sette lettere in tutto – è quello di Angelo Tessaro, inventore di un sistema meccanizzato di incisoria musicale (il “tachigrafo” musicale[15]) che, nella speranza di Giulio, avrebbe dovuto rivoluzionare questo vecchio artigianato largamente manuale. Il periodo d'apprendistato per diventare un incisore provetto richiedeva parecchi anni; il numero cospicuo di attrezzi necessari (tutti fabbricati a mano), era costosissimo da produrre; l'investimento per l'acquisto della materia prima (lastre di peltro) e il magazzinaggio delle lastre finite era ingente; e il processo stesso della preparazione delle matrici assai lento. Si può dunque ben capire con quanta fiducia Giulio investì in una nuova tecnologia promettente, come pure è comprensibile la frustrazione per il fallimento della tanto sperata soluzione (il che riporta alla mente il famoso caso dello scrittore Mark Twain, finito sull'orlo della rovina finanziaria negli anni ’80 dell'Ottocento per avere investito in tecnologie sperimentali per la composizione tipografica automatizzata). Chiunque abbia avuto a che fare con il lato della produzione industriale dell'editoria musicale (o anche con la «rivoluzione digitale» nell'industria tipografica) proverà grande empatia per la situazione in cui Giulio venne a trovarsi in questo caso. Da un lato, questo investimento di tempo e di denaro è rivelatore del suo istinto imprenditoriale che puntava al futuro e della sua disponibilità ad assumersi i rischi connessi all’innovazione. Dall'altro – come oggi sappiamo, col senno di poi – soluzioni efficaci ed economiche per l’incisoria musicale ‘meccanizzata’ (poi, digitale) tarderanno a comparire: l'incisoria ‘manuale’ resta, in gran parte, la norma fino a oltre gli anni ’70 del Novecento. Ad ogni modo, quell'azzardo imprenditoriale fallito, di puntare tante risorse su quella tecnologia sperimentale, giunse a un punto critico quando Giulio venne accusato dai soci[16] di aver gestito male l'investimento per l'acquisto del diritto al brevetto di Tessaro. L’accusa portò Giulio a rassegnare, furibondo, le sue dimissioni dalla gerenza dell'azienda, in due lettere (i nn. 181 e 182 del 17 e del 19 giugno 1895) colme di fiera indignazione. Sorprendentemente, le lettere successive riprendono a trattare temi di gestione come se nulla fosse accaduto, con Giulio sempre al suo posto: ne deduciamo che la sua sfuriata ebbe l'effetto di mettere a tacere gli avversari nel consiglio dei soci.

Su una dimensione assai più leggera, anzi divertente, troviamo tra queste missive diversi cenni alla attività tutt'altro che esigua di Giulio come compositore. Il modo in cui si riferisce al sé stesso compositore resta un mistero per il lettore odierno. Possibile che l'identità di chi si celava dietro lo pseudonimo Burgmein non fosse un segreto di Pulcinella, specie all'interno della ditta stessa? Possibile che vi fosse ancora qualcuno, alle officine o negli uffici, per non dire nella rete dei negozi e delle filiali, ignaro del fatto che Burgmein e Giulio erano la stessa persona? Eppure, nei copialettere troviamo ripetuti riferimenti a Burgmein in terza persona, con Giulio che scrive seccato al direttore di un negozio Ricordi perché questi non aveva segnalato a un cliente la disponibilità di un «album del Burgmein» appena stampato, oppure ancora che risponde a un maestro (che avrà mandato dei complimenti) per informarlo di aver comunicato «a Burgmein le tue cortesi parole, [il quale] mi incarica ringraziartene vivamente». Ancora nel 1902 la rivista aziendale della Ricordi («Musica e musicisti», all’epoca) si chiedeva «Chi è Jules Burgmein? … Non lo sappiamo, e inutilmente abbiamo indirizzato lettere sopra lettere al sig. J. Burgmein: nessuna risposta.» Inoltre, quel nom de plume fu un’adozione tarda: le prime (tante) sue composizioni Giulio le firmava a proprio nome, senza pseudonimo (anche se – dettaglio storico divertente – una di queste composizioni, una polka per pianoforte op. 36 del 1857, s’intitolava proprio Pseudonimo). A partire dal 1853 (Giulio non aveva ancora compiuto tredici anni) e fino al 1871, appaiono nel catalogo di Casa Ricordi ben centoquarantasei brani a nome suo – per lo più danze, studi, capricci per pianoforte, ma anche inni e composizioni vocali da salotto, nonché trascrizioni e fantasie su temi tratti dalle opere di Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi. E ve ne devono essere stati altri, rimasti inediti, dato che in quel catalogo le composizioni di Giulio arrivavano al numero d’opera 160. Fu solo più tardi che Giulio cominciò a firmare le proprie composizioni con lo pseudonimo «Jules Burgmein», benché in seguito abbia comunque ancora firmato qualche brano col proprio nome: nel 1889 una polka, nel 1892 una mazurka, e poi un paio di composizioni di genere patriottico: una Canzone del Bersagliere nel 1911 e un Improvviso patriottico nel 1912.

Tornando a temi più prettamente aziendali, una parte cospicua della corrispondenza riguarda questioni di efficienza e costi delle officine e di efficacia nella gestione di negozi e filiali Ricordi italiani ed esteri. Chi studia l'economia del commercio al dettaglio potrà trovare curiosa l'ossessione di Giulio per i risultati a corto raggio delle vendite nei negozi: a volte assillava i direttori dei negozi sui conti di fine anno anziché, con atteggiamento più moderno, predisporre un piano di rientro per gli investimenti a lungo termine. Questo atteggiamento potrebbe essere un sintomo dell’andamento instabile dell'economia generale italiana in quei decenni, o un riflesso delle pressioni che Giulio a sua volta subiva nel corso delle periodiche riunioni con i soci investitori. Ma potrebbe anche essere indice di quanto fossero sottili i margini di profitto nel mondo del commercio della musica stampata, se confrontati agli ingenti investimenti necessari per la preparazione delle matrici di stampa (incisoria a mano, litografia) e l'acquisto della carta, e se si pensa a quanto sia inesatta la ‘scienza’ del pronosticare le tirature necessarie per le nuove pubblicazioni. Tener conto di tutto questo ci aiuta anche a capire l'importanza che l'azienda annetteva alle attività collaterali, come la stampa per conto terzi (calendari, manifesti pubblicitari, ecc.) e le iniziative proprie di quello che oggi chiameremo merchandising (tra le più significative, le cartoline con soggetti dal teatro d'opera o per il turismo).

Arrivati al centenario dell’azienda le esigenze di produzione e di magazzinaggio dovute all'incremento delle attività fecero sì che gli spazi delle officine in viale Vittoria a Milano, dove solo cinque lustri prima tali attività si erano trasferite dagli uffici di via Omenoni (palazzo in pieno centro, a soli 250 metri dal Teatro alla Scala, nel quale comunque rimasero gli uffici amministrativi e quello di Giulio), diventassero inadeguati. Due numeri della rivista della Casa, «Ars et labor» (del 1908 e del 1910), offrirono immagini della costruzione, e successivamente della inaugurazione, di nuovi, ampi locali. Le illustrazioni erano accompagnate da alcuni dati sorprendenti:

«Nel N. 9 del 1908 di «Ars et Labor» abbiamo date alcune fotografie di queste nuove Officine, quando ancora erano in costruzione: oggi le presentiamo ai nostri lettori pressoché finite, in modo che una parte delle Officine stesse è già in azione di lavoro. Il trasloco dalle vecchie Officine in Viale Vittoria, in queste all’Acquabella, non è compiuto e richiederà molto tempo ancora. Infatti si devono trasportare con molte cure, perché di materiale delicatissimo, oltre 600,000 lastre incise, che corrispondo a 570,000 chilogrammi di metallo: già ne venne collocata nel nuovo magazzino una parte e vennero pure trasportate N. 7000 pietre litografiche e N. 75,000 lastre di alluminio e di zinco coi riporti di disegni e di musica. In seguito si inizierà il trasporto del Magazzino-Edizioni e del Magazzino-Copisteria di musica: in complesso saranno 22,000,000 tra pezzi e volumi.»[17]

Sono numeri enormi, che danno un'idea di quanto imponente fosse diventata l'impresa Ricordi. E sono dati tanto più stupefacenti, per il lettore odierno, per ciò che rivelano delle esigenze dell’attività industriale a cavallo dei secoli XIX e XX: la creazione e l’accurata custodia di grandi quantità di matrici di stampa grosse e pesanti, una vera e propria armata di maestranze altamente specializzate nella creazione di tali matrici e nella gestione delle macchine per la stampa e la confezione, nonché il significativo investimento di tempo, lavoro e denaro per ogni ristampa.

L'ultima lettera della raccolta (vol. 2 n. 48 del 3 dicembre 1909, indirizzata all'architetto incaricato della progettazione delle nuove officine e magazzini nel quartiere Acquabella alla periferia orientale di Milano) offre uno squarcio su un altro aspetto del lungimirante spirito imprenditoriale di Giulio. I succitati articoli da «Ars et labor» (recanti le immagini di una fabbrica e di uffici molto moderni per l'epoca) testimoniano di una nuova concezione, all'inizio del Novecento, dell’impostazione degli spazi lavorativi; concezione che riflette chiaramente l'innovativo atteggiamento nei confronti del benessere degli operai promosso da John Patterson, fondatore della National Cash Register Company (NCR) di Dayton (Ohio, USA).[18] Questi sosteneva che, se l'imprenditore avesse provveduto i lavoratori di un ambiente pulito, ben illuminato e ben aerato, sarebbe stato ripagato da una maggiore produttività e fedeltà da parte degli operai stessi. Quando nel 1893 fu inaugurato il nuovo ‘campus’ (così venne chiamato da Patterson) della NCR, che vantava i primi edifici detti «daylight factories», con ampie vetrate dal pavimento al soffitto per lasciar entrare la luce del sole, e che potevano essere aperte per fare entrare aria fresca, molti industriali guardarono a quel progetto con scetticismo. Ma arrivati ai primi anni del Novecento e alla innegabile evidenza dei risultati positivi derivati dal miglior trattamento dei lavoratori, molti dovettero ricredersi. E queste idee arrivarono anche in Europa. I nuovi impianti concepiti per la Ricordi dimostrano che molti di questi concetti innovativi attecchirono anche in Italia.[19]

L'editoria musicale era, per gran parte del XVIII secolo, un settore commerciale perlopiù relativamente contenuto, che poteva sì e no generare qualche discreto profitto per l'incisore/stampatore che intraprendeva tale attività. In alcuni casi poteva essere un'iniziativa collaterale affiancata a un’attività principale, come quella della vendita di strumenti musicali, della copiatura a mano di parti musicali per qualche teatro, e così via. Nel corso del secolo XIX si vide invece lo sviluppo di tre fattori complementari: il forte incremento nelle efficienze e nelle capacità di produzione; la crescita di una classe borghese con il gusto per lo studio e l'esecuzione della musica (che costituì un crescente ed importante mercato per la musica stampata); e lo sviluppo esponenziale, dalla metà del secolo, di una capillare rete ferroviaria (che facilitava la consegna del ‘prodotto’ editoriale in modo più economico a un più ampio pubblico in un maggior numero di mercati). Tali elementi contribuirono a gettare le basi per la crescita di una vera e propria ‘industria’ attorno alla produzione di musica stampata e della fornitura di materiali di esecuzione per gruppi di dilettanti e di professionisti.[20] L'ultimo di questi fattori ha creato anche l’esigenza di urgenti riforme (o perfino di legislazione del tutto nuova) nel campo della protezione del diritto d'autore e soprattutto del «diritto d'esecuzione». Alcuni imprenditori – Ricordi in prima linea – seppero cogliere queste opportunità per fondare imprese che sono poi cresciute sino a diventare grosse forze nel settore. Nel caso particolare della Ricordi, il potere di influenzare la programmazione teatrale crebbe in misura corrispondente: se un compositore come Verdi poté godere di un successo economico molto maggiore di quello del quale avevano potuto beneficiare i grandi compositori della generazione precedente alla sua, fu anche grazie, in misura tutt'altro che trascurabile, allo sviluppo dell'editoria musicale, cresciuta sino a diventare una «industria dell'arte» di considerevole influenza. La disponibilità e la sempre maggiore accessibilità di documenti come questi copialettere di Casa Ricordi, come pure di tanti altri documenti aziendali, costituiranno una risorsa fondamentale per gli studiosi che in futuro vorranno approfondire l'esame del ‘business’ della cultura nell'Ottocento e nel Novecento.

 

[1] Giovanni Gavazzi Spech, È in casa?... (Le visite di John) (Roma, 1884), pp. 181-192; questa citazione, p. 184.

[2] «The Musical World», 25 febbraio 1888, p. 145.

[3] Nel «Giornale dell’Associazione tipografico-libraria italiana» del 15 ottobre 1887, sotto la rubrica «Notizie Commerciali – Milano» si legge: «Una Società in accomandita semplice ha rilevato lo stabilimento musicale Ricordi, ed in essa entrarono unicamente come capitalisti (accomandanti) i signori fratelli Carlo e Luigi Erba, unitamente al Signor Tito Ricordi. La Società continuerà nell’esercizio dello stabilimento stesso colla gerenza del commendatore signor Giulio Ricordi, altro degli accomandanti, e colla seguente ditta: R. Stabilimento Tito di Gio. Ricordi, di G. Ricordi e C.». Arrivati al maggio successivo, dopo l’acquisizione dell’editore Casa Lucca, i soci divennero sei: vedi Claudio Sartori, Casa Ricordi 1808-1958 (Milano, 1958), p. 67.

[4] Spech, cit., p. 186.

[5] Stefano Baia Curioni, Mercanti dell’Opera: Storie di Casa Ricordi (Milano, 2011), pp. 183-187.

[6] Vedi Baia Curioni, cit., «La tragedia dinastica,» pp. 190-206.

[7] Per una trattazione dettagliata di quest’ultima tecnologia vedi Christy Thomas, When Opera Met Film: Casa Ricordi and the Emergence of Cinema, 1905-1929, testi di dottorato, Yale University (2016).

[8] «The New York Times» dell’8 gennaio 1911, ossia un mese dopo la prima assoluta al teatro Metropolitan della Fanciulla del West pucciniana diretta da Toscanini, dal titolo «The music trust that reigns over Italian opera» («Il monopolio musicale che regna sull’opera italiana»), con sottotitolo «I Ricordi di Milano, che controllano La Fanciulla del West, sono stati da cento anni un fattore importante nella storia dell’opera». In alto a sinistra campeggia il ritratto di Giulio Ricordi, «attuale capo della Casa», accompagnato nella pagina da ritratti di Giovanni e dei due Tito, nonché dettagli di documenti autografi di Donizetti, Verdi e Francesco Paolo Tosti.

[9] Claudio Sartori, Casa Ricordi 1808-1958 (Milano, 1958), p.68.

[10] Nel corso degli anni ’80 dell'Ottocento, Casa Ricordi dominò la scelta di repertorio alla Scala, lasciando tuttavia spazio per l'occasionale programmazione di opere dai cataloghi Sonzogno o di Casa Lucca. Nel 1891 la Sonzogno acquisì i diritti alla programmazione (allo scopo di portare a Milano il suo titolo di maggior successo, Cavalleria rusticana), ma nelle tre stagioni successive il controllo tornò a Ricordi (non è un mistero perché le ‘prime’ alla Scala dei due estremi capolavori di Verdi, Otello [1887] e Falstaff [1893], sarebbero stati programmati durante gli anni in cui la gestione del cartellone fosse affidata alla Ricordi, la quale poteva così garantire un controllo particolare sulla qualità di quelle due produzioni), anni nei quali fu esclusa la messinscena di qualsiasi opera del catalogo Sonzogno. Nel biennio 1894-95, alla Sonzogno venne concessa di nuovo il diritto di fungere da ‘impresario’ alla Scala, dietro la promessa di produrre più delle solite cinque o sei opere a stagione. La programmazione in quasi due anni di gestione Sonzogno, secondo uno studioso, «può solo essere definito come scelta di repertorio assolutamente bizzarro» (vedi Alan Mallach, The Autumn of Italian Opera From Verismo to Modernism 1890-1915 [Lebanon, New Hampshire, 2007], pp. 214-216), e Casa Ricordi si è rifiutata di permettere che le opere del proprio catalogo fossero rappresentate alla Scala. Quelle stagioni furono finanziariamente disastrose per il teatro, anche se Sonzogno – un milionario che si occupava di editoria musicale più come di un hobby più che come di una seria impresa commerciale – sosteneva di tasca propria gli ingenti costi attingendo ai suoi profitti dell'editoria non musicale. Nel 1897 la città di Milano abolì del tutto il suo sostegno finanziario alla Scala e il teatro chiuse i battenti per l'intera stagione 1897-98.

[11] Vedi Philip Gossett, «Piracy in Venice: The Selling of Semiramide» in Words on Music: Essays in Honor of Andrew Porter on the Occasion of His 75th Birthday, David Rosen and Claire Brook, curatori, (New York, 2003), pp. 120-137.

[12] Negli anni '90 dell'Ottocento la Sonzogno, assieme alla gestione delle stagioni dei teatri milanesi Lirico, Carcano e Dal Verme, assunse il ruolo di impresario anche di alcuni teatri di Firenze, Roma e Napoli. La competizione rappresentata dalla presenza della Sonzogno era tutt'altro che una lotta alla pari, in quanto Sonzogno non ebbe remore a gettare ingenti somme a fondo perduto in tali imprese, come ha riferito un'articolista dell'epoca: «Il Sonzogno ha preso il teatro senza dote, e la sue intenzione era quella di dimostrare che i teatri posso avere vita indipendentemente dalle sovvenzioni. Ora, questa prova pure è fallita. Al Sonzogno, beato lui, la spesa non fa paura, perché è milionario.» A. Giovanetti, «Gli spettacoli di Roma» in Gazzetta teatrale italiana XIX (1890), n. 10, 25 marzo, p. 1, quoted in Marco Capra, «La Casa Editrice Sonzogno tra giornalismo e impresariato» in Casa Musicale Sonzogno: Cronologie, saggi, testimonianze, Mario Morini et al, curatori, (Milano, 1995) I:269.

[13] «The Musical World,» 28 luglio 1888, pp. 584-585.

[14] Vedi ad esempio Julian Budden (il quale riporta che Sonzogno era «conosciuto per i suoi modi di agire privi di scrupoli»), Puccini, His Life and Works (Oxford, 2002), p. 241. Versione italiana (Roma, 2005), p. 258.

[15] Per notizie sulla storia di questo marchingegno vedi Giuseppe Aliprandi, Il ‘Tachigrafo Musicale’ Tessaro in «Bollettino della Accademia Italiana di Stenografia», 1937, pp. 114-117, articolo che riporta la seguente lusinghiera anticipazione delle promesse del sistema, apparsa nella rivista ricordiana la «Gazzetta Musicale di Milano» del 25 marzo 1888: «La macchina tachigrafica, la quale, in elegantissimi tipi e caratteri, a scelta, può produrre nello stesso spazio di tempo un numero doppio di pagine che coll’antico sistema dell’incisione, pronto al trasporto su lamine di zinco, o sulla pietra, può essere messa in lavoro anche dalle dita delicate di giovanette per poco che sieno educate nelle prime discipline musicali. Il tirocinio, che non può essere minore di alcuni anni per divenire abili incisori, si limita ad uno, tutto al più a due mesi, e risparmia all’operaio la manipolazione delle antiche lastre di piombo, nocive sempre, spesso perniciose.» Va da sé che, oltre ai vantaggi di efficienza produttiva qui sopra accennati, la possibilità di sostituire maestranze di esperti incisori con ‘giovinette’ operatrici che richiedevano solo una minima preparazione, significava per Ricordi contenere sensibilmente i costi. Il problema col sistema, alla fin fine, non fu tanto il malfunzionamento della macchina – apparentemente funzionava, e anzi l’articolo nel «Bollettino» accenna ad una causa intentata, e vinta, dal Tessaro contro la Ricordi – quanto piuttosto il fatto che quella tecnologia non raggiunse mai gli sperati e vantati livelli di efficienza e quantità di produzione necessari per poter sostituire il vecchio sistema d’incisoria e dunque di giustificare gli ingenti livelli d’investimento che Ricordi andava facendo.

[16] Baia Curioni (cit., p. 188) indica un socio in particolare: Strazza, il quale, alcuni mesi più tardi, si sarebbe dimesso dal Consiglio.

[17] Da «Ars et Labor—Musica e Musicisti», Anno 65 n. 1 (gennaio 1910), «Le nuove Officine G. Ricordi & C. in Milano (all’Acquabella – Fuori Porta Monforte)», p. 39.

[18] Vedi il capitolo su on «Welfare work and labour» in Samuel Crowther, John H. Patterson: Pioneer in Industrial Welfare (New York, 1926), pp. 190-207.

[19] Vedi «Inaugurazione delle nuove Officine G. Ricordi & C. in Milano —22 giugno 1910» in «Ars et Labor» pp. 543-555 (luglio 1910).

[20] Vedi John Rosselli, «The New System: Verdi as Money-Maker» in Verdi Festival Essays, Royal Opera House, Alison Latham, ed. (Londra, 1995), pp. 12-15. Tradotto in italiano come «Verdi uomo d’affari» in Giuseppe Verdi: L’uomo, l’opera, il mito, Francesco Degrada ed. (Milano, 2000) pp. 91-95.

The private corporate copybooks of Giulio Ricordi
Gabriele Dotto

 

“Imagine a man who has a hundred things to keep after. Industrialist: here is the colossal factory to oversee; publisher: here are highly important contracts to stipulate and, even more crucially, to enforce; furthermore, today there are rehearsals at La Scala, tomorrow, the mise-en-scène of a new work. Blend the practical nature of a businessman with the artistic temperament of a composer, driven by his muse toward new and original inspirations […]”

 

Thus reads an admiring little portrait of Giulio Ricordi (1840-1912) in the chapter dedicated to him in a series of essays on eminent people of the Milanese literary, scientific and artistic milieux published in Italy in 1884.[1] The admiration accorded Giulio stretched well beyond the borders of Italy: in a London periodical of 1888 we read “Signor Giulio Ricordi, as everyone knows, besides being an excellent man of business, is also a composer of distinguished merit”;[2] a full-page illustration in The Graphic of 18 February 1893, dedicated to the premiere of Falstaff at La Scala, shows the portraits of three men: along with the librettist Arrigo Boito and the composer Giuseppe Verdi is—right in the center—Giulio Ricordi; and when Giulio died, the New York Times dedicated a full column to his obituary. Few, if any, music publishers have occupied a position of such influence, not to mention of such renown even among a general, international public. Particularly fascinating it is, therefore, to be able to examine (alongside the many other business-related documents housed in the Ricordi Archive) this set of “private” copybooks of letters from the Director alone, or by his direct delegates, dealing in part with matters of a certain delicate nature. Since not all of the 280 letters in these two volumes deal with matters “of a certain delicate nature,” however, it is not entirely clear why, exactly, some of them appear in these “private” copybooks rather than in the main copybooks of the publishing house. Apart all manner of day-to-day issues related to running a business (which appear in both these and in the main copybooks of the publishing house), those main copybooks also contain, on occasion, letters on delicate topics (complaints about third parties, cajoling missives to composers, and the like) which might certainly have caused some embarrassment if they were rendered public.

The twenty-two year arc of time covered by these copybooks may have something to do with why, exactly, this separate set of correspondence copies was generated. They begin in 1888, immediately following the transformation of what had been, for eight decades, a family-run business, into a company with shareholders[3]—though not yet a true “public company” in our modern sense (that would occur, in a partial way, after World War I —Giulio by then long dead). The letters that deal with matters of reprimand of employees, of hirings and firings, of complaints about retail shops and affiliates being run lackadaisically or about work done in a shoddy manner (whether by laborers or managers of the company workshops or by contracted third parties like the architectural firm entrusted with the design and construction of the new production offices at the outskirts of town), may have been the sorts of issues that General Manager Giulio might possibly have wanted to shield from the eyes of shareholders. And certainly, a jocular, vaguely “not fit for work” letter like the bawdy mock-Bohème verses of the letter to Puccini of November 1895, or the letters to a lawyer marked “private,” or further the severe father-son scoldings of the later letters to Tito II, were never meant for other eyes. And yet, these are nonetheless “official” company documents, kept on file. The exact nature of the obligations for keeping (and, if required, revealing) such documents in that time, has yet to be fully explored. The other antipode of this set of copybooks – 1909 – corresponds with the year in which the director of Casa Ricordi’s long-standing antagonist, Casa Sonzogno, decided to step aside and pass the business along to his (far less aggressive) nephews. This latter date may, however, be pure coincidence; for that matter, the initial year (1888) also coincides with the months leading up to the finalization of the acquisition of long-time rival publisher Casa Lucca (with its lucrative Italian rights to the works of Wagner).

The number of letters per year describes an overall downward trajectory, from the high point of fifty-four letters in 1888 to the single letter of 1908 and the five of 1909. Overwhelmingly they deal with business matters and in-house organization, but taken together, these letters are enormously revealing to the modern reader for the picture they offer of day-to-day matters of management of a very large player in the fin-de-siècle “industry of the arts.”

Just a few years before these private copybooks were begun, the company had made an enormous investment in new production and warehousing facilities in Viale Vittoria in Milan. Indeed, in the very year of that move (1884) Spech’s book quoted above described the by-then cramped conditions in the palazzo that for years had housed the entire firm:

“This House of Ricordi in Via Omenoni, with its patrician façade, is a marvel. If you open those shutters that you see on the sides of the courtyard, before you lies an immense warehouse of music: engraved metal plates, printed music, a storage area for paper, crates. If instead you pass through that door at the back bearing the company’s famous emblem of the three rings engraved on the glazed glass panels, you will find the lithographic and typographic printing presses, and a hundred workers. Machinery and laborers who are, however, getting ready to move to the new plant outside Porta Vittoria.”[4]

The debt of that investment must have still loomed heavily when the acquisition of Casa Lucca was finalized in the spring of 1888, as would the increasing expenses over the following years, as Ricordi continued to expand its network of shops and affiliates as well.[5]

The twenty-three letters to his son Tito describe a revealing journey in the sometimes uncomfortable balancing of the overlap of relationships, manager-employee and father-son. To what extent Giulio’s growing litany of complaints about Tito’s poor management habits and spendthrift ways reflects quantifiable shortcomings, as opposed to a generational clash of ideas about how the music publishing business should evolve in that complicated turn-of-the century period, is a matter that merits considerable more research in the future. This “dynastic crisis,” as one scholar has defined it,[6] may have had as much to do with son Tito’s enthusiastic embrace of budding technologies (gramophones and silent cinema synchronized to sound recordings[7]) versus father Giulio’s highly cautious approach to these disruptive new elements of the commercial (and artistic) panorama, as it did with problems of Tito’s management. In Giulio’s closing screed (5 July 1907: what a devastating letter that must have been for the son to receive!) we can read, alongside the father’s resigned realization that perhaps the dynastic succession was truly coming to an end, an underlying lament about a musical (and commercial) world that was fast changing (in his opinion, for the worse), and perhaps even (in Giulio’s mind) disappearing altogether. And yet, in the year following these letters, the father-son “team” would score a fruitful, indeed triumphant collaborative success in the time-tested approach of how Ricordi “conducted its business.” Read these words from The New York Times[8] about the publisher’s fundamental role in ensuring the success of the premier of Puccini’s Fanciulla del West at the Metropolitan Opera:

“There was an editorial in a recent number of The Musical Courier which paid lavish tribute to the might of the firm. Its title was ‘Business.’ Commenting on the relative financial success of Richard Strauss and Giacomo Puccini in the musical world of the present, the writer said:

‘The Puccini success is more overwhelming and complete because he has behind him the physical and moral support of an enormous commercial force, a force that no other composer living can calculate upon, and that is the Ricordi publishing house. With an unexampled energy and a mercantile perspicuity unequaled in its line, the Ricordi firm sustains Puccini to a degree that defies and defeats competition. […]

As to the French composers, there is lethargy and indifference only, for, when Debussy’s opera was performed here, neither composer nor publisher gave any personal attention to the exploit, and even now, with a Debussy opera promised at Boston, no manifestation can be looked forward to on the part of the composer, or of Durand, the publishers. Neither Heugel nor Choudens, the rich Paris publishers, make any effort to aid Massenet’s or other French operas introduced to our opera public.

This driving Italian commercial force, taking advantage of every opening, discloses a mercantile genius that puts our American publishers into complete eclipse. It is this remarkable associated element, utilizing fashion as its medium, that makes it nearly impossible for other opera composers to flourish here and in England, and that holds the control of the living repertory.’

Thanks to the Ricordi impulse, it is claimed that Puccini, if all goes well, will make more money out of The Girl of the Golden West than Strauss has made up to the present out of all his operas, among which are such sensations as Salome and Elektra.

Humperdinck’s Königskinder was produced a few nights ago at the Metropolitan for the first time on any stage. ‘But where is the publisher?’ The Musical Courier writer asks. ‘The musical world knows not his name. Will Dukas, the composer of Ariane and Barbe Bleue come from Paris? Will his publisher come? Is the publisher showing any interest in the production of the Dukas work? Ricordi is here on the spot carefully supervising every step taken. Gatti-Casazza [superintendent of the Metropolitan], Toscanini, Caruso, Amato, Puccini, and Ricordi represent one unit of energy working toward a common end.’ ”

The on-site Ricordi representative in New York, come from Milan to ensure that everything would go in the best possible way, was Tito II.

A whirlwind of both company-related issues and cultural-industry issues were roiling in the background over the course of the years covered by these copybooks, but little of this transpires in this correspondence—except, of course, if we read “between the lines” of the letters complaining about scant performance of the various shops and affiliates, as a reflection of the more general alternation of high and low points of the Italian economy through those decades. In 1895 the typesetters of Ricordi’s book-printing division went on strike (the news is barely mentioned in passing in the opening of letter n. 186 of 10 November); management took a hard line, refused to meet their demands and instead fired the lot of them (a total of 45 employees), shutting down the department altogether.[9] Throughout the 1890s Italy’s most prestigious opera house, La Scala—one of Ricordi’s key theatrical clients—went through a downward spiral of financial troubles, as the city progressively pulled back on its subventions.[10] One key, ongoing issue, however, has a very prominent place in these letters: the battle with Sonzogno, over both copyright and theatrical programming. Encroachment on Ricordi’s copyrights—whether as arguments over ownership of exclusive territories or types of rights, or matters of outright piracy—had been a headache throughout Ricordi’s history: the founder, Giovanni, had extensive litigation with Casa Lucca, with Artaria & C, as well as with several impresarios (to be fair, no one was innocent in these sorts of dealings in the early 19th century, with Ricordi sometimes standing as the accused).[11] The “Sonzogno affair” occupies Giulio’s attention from the very first letter in this collection, and along with complaints about Sonzogno’s management of theatre seasons in several theatres (not only La Scala),[12] the rival publisher resurfaces in fourteen more. Their ongoing fight over copyrights gained attention well beyond the borders of Italy, since it involved debates about the extent of copyright protection which were no doubt closely watched by publishers, theatres, and legal minds of many countries. Both Ricordi and Sonzogno distributed pamphlets arguing their side of the issue, and a London journal gave English readers this succinct update:

“Even in Italy, which is said by some people to be the land to which the muses have fled, and wherein they hide now from the cheerless atmosphere of the nineteenth century, abiding the dawn of a better day, the virtues of generosity have not been brought to an uncomfortable perfection, as is shown by the battle now waging between Signor Sonzogno, the proprietor of the Secolo, and Signor Ricordi, on a question of copyright. The first-named gentleman has, it appears, been publishing cheap editions of the operatic works of Cimarosa, Rossini, Donizetti, Meyerbeer, and others, relying on the provisions of the old copyright laws, which limited the period of an author’s proprietary rights to thirty years. Meanwhile, however, a new law has been passed, which extends the period to eighty years, and on this ground Signor Ricordi claims rights in several of the works published by Sonzogno, and has instituted proceedings against him. Not content with these measures, Ricordi is himself publishing the same works at a still cheaper rate, for as soon as Sonzogno announces a work to be published at 25 centimes, Ricordi brings out the same publication at 15 centimes. This suicidal policy has resulted, however, in the publication by Sonzogno of the same operas at the ridiculous price of 5 centimes. It is, of course, very sad to think how long the millennium is in coming to the musical world; but for all that, there will not be wanting unregenerate persons to wish that in England they might buy opera-scores for five centimes.”[13]

Sonzogno also went out of its way to speak ill of new Ricordi operas at any opportunity in its widely read newspaper Il secolo and is generally suspected of being behind the purposefully orchestrated fiasco of the premiere of Puccini’s Madama Butterfly in 1904.[14] Little wonder that his name should appear so often in this correspondence.

Another name that makes a not infrequent appearance—seven letters in all—is that of Angelo Tessaro, inventor of a mechanized music-engraving system, the music “tachygraph,”[15] that Giulio hoped would revolutionize that ancient, labor-intensive craft. The apprenticeship for becoming a master engraver took several years, the large number of necessary tools (all handmade) were highly expensive to produce, the expenditure in acquisition and storage of the pewter engraving plates enormous, and the process itself agonizingly slow. Giulio’s good-faith investment in the promising process is entirely understandable, as was the ultimate failure of the hoped-for technology (reminiscent of the famous case of the writer Mark Twain who nearly bankrupted himself in the 1880s, investing in experimental automated typesetting technology). Anyone involved with the music publishing industry (or indeed the “digital revolution” in the print industry) will feel great empathy with Giulio’s plight here. On the one hand, this investment of time and money reveals his forward-looking instincts and entrepreneurial willingness to take on risks. On the other, as we know from hindsight, even though numerous such solutions were attempted throughout the early 20th century, hand-engraving or hand-copying were still the norm as late as the 1970s; it wasn’t until the last decade of the 20th century that reliable and economically viable “mechanical” (digital) music engraving solutions became standard. Nonetheless, the failed entrepreneurial gamble reached a dramatic point when Giulio was accused by the shareholders[16] of mismanaging the investment for the acquisition of Tessaro’s patent rights, leading him to furiously submit his resignation as general manager in letters filled with righteous indignation (nos. 181 and 182 of 17 and 19 June 1895). Nonetheless, subsequent letters continue, with Giulio still on the job, as though nothing at all had occurred, so we can presume his outburst had the effect of quieting his critic among the board members.

On a far lighter, indeed amusing side, we have the several references to publications by “Jules Burgmein,” the nom de plume Giulio adopted for his copious compositional activity. The ways in which he refers to himself within these letters remains a puzzle for the modern reader: surely by this time the identity of the “man behind the pseudonym” was an open secret, especially within the firm itself. Could there possibly have been anyone at the Ricordi workshops or offices, or in the network of retail shops and affiliates, who was unaware of Burgmein’s identity? And yet we get repeated references to him in the third person (perhaps meant ironically?), writing to the director of a Ricordi shop with whom he was annoyed because that fellow had not informed a client about the availability of a recently published “Album by Burgmein,” or again responding to a conductor (who must have sent an adulatory note) to inform him that he had “referred your kind words to Burgmein, who asked that I thank you warmly in his stead.” In 1902 the Ricordi house organ (at the time called Musica e Musicisti) raised the question “Who is Jules Burgmein? ... we do not know, and to no avail have we have sent letter upon letter to Mr. Burgmein: we never got a reply.” Furthermore, the nom de plume was a late subterfuge: Giulio had signed his (numerous) early compositions with his own name (although, by way of ironic historical detail, one of these compositions, a polka for piano, opus 36 of 1857, was entitled Pseudonimo). From 1853 (when he was still but a lad, not yet thirteen) up to 1871 the Ricordi catalog registers fully one hundred forty-six pieces signed Giulio Ricordi, mostly dances, etudes, and caprices for piano but also hymns and chamber vocal pieces, not to mention transcriptions and fantasias on themes from operas by Rossini, Donizetti, Bellini, and Verdi. And there must have been other works as well, since the Ricordi production ledgers list a work signed by him and identified as opus 160. Only later did Giulio adopt the Burgmein pseudonym (even though he would again publish occasional compositions under his own name: a polka in 1889, a mazurka in 1892, and a pair of patriotic pieces, a Canzone del Bersagliere in 1911 and an Improvviso patriottico in 1912).

Getting back to more strictly business-centric themes: a large part of this correspondence regards efficiency and costs surrounding work at the Officine (workshops) and the successful management of the Ricordi shops and affiliates in Italy and abroad. Students of retail commerce may wonder at Giulio’s obsession with short-term sales performance of the shops, at times hounding the shop managers over yearly results rather than (in a more modern sense) accommodating long-term return-on-investment concepts. This may have been a reflection of the unstable economic “rollercoaster” of the general situation in Italy over those decades, or of the pressure that, in turn, his shareholders would raise in their periodic meetings; but quite possibly it is also an indicator of how razor-thin the profit margins were in the retail sheet-music trade, in light of the significant investments necessary for preparing the masters (manual engraving, lithography), acquiring paper, and the highly inexact science of calculating reasonable print runs for new publications. This also helps clarify the importance that the company placed in collateral initiatives like third-party printing jobs (calendars, publicity posters and the like) and its own line of what we would today term “merchandising” (most significantly, opera-related or tourism-related postcards).

By the time of the company’s centennial the warehousing and production needs of its expanding activity had outgrown the spaces in Viale Vittoria where these departments had relocated, a quarter century earlier, from Via Omenoni (though Giulio’s headquarter offices had remained in that downtown building just 250 meters from La Scala). Two issues of the house journal Ars et Labor showed the construction, and later the inauguration, of the vast new complex, and related some eye-opening data:

“In Ars et Labor n. 9 of 1908 we offered a selection of photographs of these new Workshops, then still under construction. Today we can announce to our readers that they a nearly completed, and indeed part of the plant is already in operation. The move from the old workshops in Viale Vittoria to these at Acquabella is not complete and will require considerably more time. In fact, the over 600,000 engraved music plates (weighing 1,265,635 pounds) must be transported with extreme care because they are quite delicate; a portion of them has already been moved to the new plant to date, along with 7,000 lithographic stones and 75,000 aluminum and zinc printing plates with illustrations and music. After that, we will begin the relocation of the warehouses of printed music editions and of the performing materials from the copy shop: in all, some 22 million scores, parts, and editions.”[17]

These are huge numbers, indicative of the enormous enterprise Ricordi had become. The data are also staggering to modern eyes because of what they reveal about turn-of-the century industrial requirements: the creation and careful storage of vast amounts of large, heavy printing masters; a veritable army of skilled workers to create them and to run the machinery; the significant investment of time, labor, and material for every printing and reprinting.

The very last letter of the collection (vol. 2 n. 48 of 3 December 1909 addressed to the architect charged with the project of those new production offices and warehouses in the Acquabella neighborhood at the eastern outskirts of town) offers insight into another aspect of Giulio’s forward-looking entrepreneurial spirit. The above-cited Ars e Labor articles (with images of the very modern factory premises and offices) reveal a new conception of the 20th-century workspace, clearly reflecting the attitudes toward worker well-being championed by John Patterson, founder of the National Cash Register Company (NCR) of Dayton, Ohio (USA)[18] who insisted that by offering workers clean, well-lit, adequately ventilated work environments one would increase productivity and employee loyalty. When the new NCR “campus” was built in 1893 (featuring the first "daylight factory" buildings with floor-to-ceiling glass windows which offered natural light and could be opened to let in fresh air) many industrialists viewed the experiment with skepticism, but by the early 1900s the positive results of treating the labor force decently became clear and the ideas spread to Europe as well. The new Ricordi facilities reflected a number of these innovative concepts.[19]

Through most of the 18th century music publishing was, in the main, a relatively minor business sector that may or may not have generated appreciable profits for an engraver/printer and indeed which may have been, in some cases, a secondary activity to such things as music instrument sales, scribal copying of music for performing organizations, and the like. The development of three complimentary trends through the 19th century—increased industrial output and efficiency; a growing middle-class taste for amateur music study and music-making (creating a more substantial market for sheet music); and the exponential mid-century expansion of rail travel (making delivery of “product” available cheaply to more, and much broader, markets)—contributed to laying the groundwork for a real “industry” to grow around sheet-music production and music-material supply to dilettante and professional performing groups. The last of these developments also set the stage for urgent reforms (or new legislation) regarding copyright and above all the concept of “performing rights.” Some entrepreneurs seized these opportunities and established organizations that grew to impressive size, Ricordi at the forefront. In the case of Ricordi, their “power” to influence programming grew as well: if a composer like Verdi could become so much more economically successful that the great composers of a generation earlier, it is due in no small part to the growth of music publishing as a truly influential “arts industry.”[20] The increased availability of documents like these copybooks of Casa Ricordi, and a great many other “corporate” documents, will continue to offer a fundamental resource for future historians who examine the “business of culture” in the 19th and 20th centuries.

 

[1] Giovanni Gavazzi Spech, È in casa?... (Le visite di John) Rome, 1884, pp. 181-192; this quote, from p. 184.

[2] The Musical World, 25 February 1888, p. 145.

[3]The music publisher Ricordi has been taken over by a partnership en commandite with capital invested solely by the brothers Carlo and Lugi Erba, alongside Signor Tito Ricordi. The Partnership will continue running the company under the directorship of signor commendatore Giulio Ricordi (another of the shareholders) under the following name: R. Stabilimento Tito di Gio. Ricordi, di G. Ricordi e C.”; Giornale dell’Associazione tipografico-libraria italiana of 15 October 1887, under the rubric “Notizie Commerciali – Milano.” By the following May, after the acquisition of the Lucca publishing firm, the shareholders had expanded to six: see Claudio Sartori, Casa Ricordi 1808-1958 (Milan, 1958), p. 67.

[4] Spech, cit., p. 186.

[5] Stefano Baia Curioni, Mercanti dell’Opera: Storie di Casa Ricordi (Milan, 2011), pp. 183-187.

[6] See Baia Curioni, cit., “La tragedia dinastica,” pp. 190-206.

[7] For a detailed examination of the latter, see Christy Thomas, When Opera Met Film: Casa Ricordi and the Emergence of Cinema, 1905-1929, PhD dissertation, Yale University (2016).

[8] The New York Times, 8 January 1911 (i.e., a month after the world premiere of Puccini’s La fanciulla del West conducted by Toscanini), under the title “The music trust that reigns over Italian opera” with the subheading “The Ricordis of Milan, who control ‘The Girl of the Golden West,’ have been factors in operatic history for a hundred years.” At the upper left of the page, a portrait of Giulio Ricordi (“Present head of the House”) accompanied, down the page, by portraits of Giovanni and the two Titos as well as details of autograph music by Donizetti, Verdi, and Francesco Paolo Tosti.

[9] Claudio Sartori, Casa Ricordi 1808-1958 (Milan, 1958), p.68.

[10] Throughout the 1880s Ricordi largely controlled the choice of repertory at the theatre, while allowing for occasional productions of Sonzogno or Lucca works. In 1891, Sonzogno purchased programming rights (in order to launch its hit Cavalleria rusticana in Milan), but over the following three seasons Ricordi was back in control (it is no mystery why Verdi’s last two masterpieces, Otello [1887] and Falstaff [1893] should have been premiered at La Scala during its Ricordi-run years, when the publisher could guarantee to the composer its close oversight) and excluded any Sonzogno operas from the programing. In both 1894 and 1895 Sonzogno was awarded the right to act as “impresario” by promising to produce more than the usual five or six operas in a season. The programming in those two Sonzogno years, in the words of one scholar, “can only be characterized as a thoroughly bizarre repertory” (see Alan Mallach, The Autumn of Italian Opera: From Verismo to Modernism, 1890-1915 [Lebanon, New Hampshire, 2007], pp. 214-216) and Ricordi refused to allow any of the operas from its catalog to be produced there. Those seasons were financial failures for the theatre, although Sonzogno—a wealthy man dabbling in music publishing more as a hobby than as a business venture—subsidized the productions heavily out of his earnings from his non-musical publishing activities. By 1897 the city of Milan abolished its subsidy to La Scala altogether, and the theatre remained shuttered for the entire 1897-98 season.

[11] For one such instance, see Philip Gossett, “Piracy in Venice: The Selling of Semiramide” in Words on Music: Essays in Honor of Andrew Porter on the Occasion of His 75th Birthday, David Rosen and Claire Brook, eds., (New York, 2003), pp. 120-137.

[12] Besides several Milanese theatres (the Lirico, the Carcano, the Dal Verme), Sonzogno, in the 1890s, assumed the impresario role of theatres in Florence, Rome, and Naples. Sonzogno had few qualms about sinking huge sums into those enterprises, as a Roman chronicler of the era relates: “Sonzogno took charge of a theatre that had no endowment, with the intention of showing that theatres can support themselves independently without subventions. This attempt has now proven to be a failure. The enormous investment he made doesn’t bother Sonzogno though because, lucky him, he’s a millionaire.” A. Giovanetti, “Gli spettacoli di Roma” in Gazzetta teatrale italiana XIX (1890), n. 10, 25 March, p. 1, quoted in Marco Capra, “La Casa Editrice Sonzogno tra giornalismo e impresariato” in Casa Musicale Sonzogno: Cronologie, saggi, testimonianze, Mario Morini et al, eds., (Milan, 1995) I:269.

[13] The Musical World, 28 July 1888, pp. 584-585.

[14] See for instance Julian Budden (who relates that Sonzogno was “known for his unscrupulous tactics”), Puccini, His Life and Works (Oxford, 2002), p. 241.

[15] For a brief review of the history of the device, see Giuseppe Aliprandi, “Il ‘Tachigrafo Musicale’ Tessaro” in Bollettino della Accademia Italiana di Stenografia, 1937, pp. 114-117, which offers this glowing quote from the 25 March 1888 of Ricordi’s Gazzetta Musicale di Milano, anticipating the promised advantages of the system: “The tachygraphic machine, which offers a choice of quite elegant music characters and typefaces, can produce in a given amount of time twice the number of pages—ready to be transferred to zinc printing plates or lithographic stone—compared to the old system of engraving. What is more, it can be operated by the delicate hands of young ladies with just a minimum amount of training in setting up pages of music. The period of apprenticeship, which would require several years in order to become expert engravers, lasts instead just one or at most two months, and this machine spares the worker from having to handle lead plates (as in the old system), which is always risky and even dangerous.” It goes perhaps without saying that, above and beyond the production efficiencies here described, the possibility of using young women (who required a modicum of training) to operate the machines rather than highly skilled craftsmen meant that Ricordi could also pay them lower wages. In the end, the problem wasn’t that the invention didn’t work—apparently it did, and the Bollettino article mentions that Tessaro ultimately sued Ricordi, and won—but rather, that the technology simply could not reach the hoped-for production levels that would have efficiently replaced the old system of hand engraving, and thus have justified the significant investment Ricordi had been making.

[16] Baia Curioni (cit., p. 188) indicates one shareholder in particular—Strazza, who some months later would resign from the Board.

[17] Ars et Labor—Musica e Musicisti, Anno 65 n. 1 (January 1910), “Le nuove Officine G. Ricordi & C. in Milano (all’Acquabella – Fuori Porta Monforte),” p. 39.

[18] See the chapter on “Welfare work and labour” in Samuel Crowther, John H. Patterson: Pioneer in Industrial Welfare (New York, 1926), pp. 190-207.

[19] See “Inaugurazione delle nuove Officine G. Ricordi & C. in Milano — 22 giugno 1910” in Ars et Labor pp. 543-555 (July 1910).

[20] See John Rosselli, “The New System: Verdi as Money-Maker” in Verdi Festival Essays, Royal Opera House, Alison Latham, ed. (London, 1995), pp. 12-15.