Date: 1/2/1917



Place: Napoli

ID: LLET006664




Napoli, 1o febbraio 1917

 

Gent.mo Commendatore

 

Avrei voluto evitarle la noia di leggere questa mia lettera, che per il suo contenuto non potrà esser breve, perché a me è sempre dispiaciuto di recare il minimo disturbo a chiunque, e spesso ho preferito anche la privazione alla richiesta magari di un piccolo favore. Per quanto poi riguarda la sua persona, rendendomi esatto conto delle molte occupazioni che Le incombono nella gestione di una così vasta Azienda, ho sempre cercato di evitare il più possibile noie di questo genere, e gliene sono prova i lunghi silenzii, anche di un intero anno, da parte mia. Ho voluto dirle questo per farle notare che se ora vengo a disturbarla gli è che, per le circostanze che verrò ad esporle, ciò mi è assolutamente indispensabile, e La prego perciò di avere la bontà e la pazienza di seguirmi.

Mi sembra inutile che io le rifaccia la storia di faccende assai penose che altra volta Le ho lungamente esposte a riguardo della mia situazione. Purtroppo io ho dovuto convincermi che a tale stato di cose Ella ha finora creduto assai relativamente. E ciò lo comprendo anche, dato il mio precedente stato e le difficoltà da parte sua di rendersi un conto esatto di ciò che Le ho detto a voce e scritto un paio di volte da due anni in qua. Generalmente è più facile credere che uno sia in modo rapido arricchito, anziché, con altrettanta rapidità, andato in malora. Del denaro che si è posseduto tutti sono persuasi che ne resti sempre attaccato un poco tra le dita. Così fa dire amaramente Giacosa al suo protagonista di “Come le foglie”. Ed è verissimo. Alla mancanza totale non crede nessuno. Io mi trovo ora nella medesima situazione di quel personaggio, alla vigilia di abbandonare la sua Milano per cercare lavoro e guadagno nella vicina Svizzera. Appena la guerra sarà finita, io, mio fratello e la mamma lasceremo Napoli per stabilirci a Roma o a Milano. Purtroppo la nostra condizione non ci permette più di abitare in una città dove, per le conoscenze e per le relazioni di parentela come per la stessa vita che vi abbiamo condotto, ci è ormai impossibile di rimanere.

Avremmo anche prima messo in opera tale decisione presa fin dall’anno scorso, ma, a causa della guerra, della difficoltà e del caro per il trasloco, come pure per la necessità di attendere l’arrivo del mio terzo fratello che trovasi alla fronte [sic] e col quale dobbiamo dividere il mobilio di cui venderemo la maggior parte, abbiamo dovuto nostro malgrado e con enorme sacrificio rimandare l’effettuazione di questo nostro disegno. Dipenderà dal genere di occupazione e dalla probabilità di averla, la scelta di una delle città suddette. Perché ormai tanto io che mio fratello dobbiamo pur procurarci i mezzi materiali per vivere col nostro lavoro. Ed è appunto per la necessità di dover prendere una decisione definitiva riguardante il mio avvenire, che io mi rivolgo a Lei, con l’animo disposto a qualsiasi rinunzia e con la calma di cui bisogna essere armati nel momento delle supreme decisioni, per chiederle che cosa io debba fare. Naturalmente io non vengo in tal modo a sollecitare il suo consiglio in una faccenda della quale Ella avrebbe tutto il diritto di disinteressarsi, ma a pregarla di espormi nel modo più franco se io posso d’ora in avanti contare sulla musica come fonte di guadagno per vivere anche il più modestamente possibile, ma per vivere.

Io sono disposto a tutto, glielo dico con fermezza, ed Ella non abbia la minima esitazione a dirmi la verità, anche se la sua risposta debba costituire per me la rinunzia definitiva a quanto di più caro io ho praticato fin’ora [sic], a ciò che è stata l’unica assicurazione della mia vita, alla dolce compagna di tanti anni, alla musica, a cui ho forse sacrificato un avvenire migliore, ma che pur mi ha concesso momenti di ebbrezza indimenticabili. Se io avessi seguito i consigli del mio povero padre, che si oppose con ogni ragionamento pratico a che io abbandonassi gli studi per la carriera diplomatica alla quale ero iniziato e destinato, proprio alla vigilia di recarmi all’Istituto superiore di Firenze, il mio ingegno, che non è poi fra i più comuni, mi avrebbe portato rapidamente in alto, e a quest’ora avrei una situazione certo più elevata di quella che il destino mi prospetta in questo momento.

 

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Un mio compagno di studi, il Principe di Montereale, è già il primo consigliere di Legazione. Ma io fui testardo e deciso. Pur non facendomi vane illusioni sulla facilità dell’impresa, perché sono stato fin dalla prima gioventù molto ponderato, io contavo che la mia posizione finanziaria mi avrebbe permesso di attendere i primi anni, i più difficili, prima di pervenire nell’arduo compito del teatro. Cosa vuole: la gioventù, il fascino dell’arte, il miraggio dei successi e, soprattutto, il convincimento del mio Maestro, Guglielmo Fuelli, che io sarei certamente riuscito (posseggo una sua lettera diretta a mio padre) mi resero incrollabile. Ebbi il consenso della mia famiglia e fui felice il giorno in cui abbandonai l’Università. Il resto Le è noto. I pochi anni di attesa sono diventati a poco a poco circa venti, ed ora la mia situazione è ben diversa! Ma non rimpiango il passo fatto, perché sono convinto che non io ho sbagliata la via, ma il destino me l’ha resa oltremodo penosa e difficile. Certo se non fosse scoppiata la guerra il “Ramuntcho” a quest’ora si sarebbe dato, e, poiché dell’esito di quest’opera non saprei dubitare, chi sa se, pur senza esitazioni, il mio stato non sarebbe ora abbastanza lieto ed incoraggiante per nuovi cimenti. Malgrado tutto io non mi sono perduto di animo durante questa lunga, penosa attesa, e glielo prova il fatto che ho lavorato con serena fiducia in un avvenire migliore e con grande coscienza. Dopo la dolorosa rinunzia a veder rappresentata nell’autunno del 1914 la mia opera al Dal Verme, mi sono messo a lavorare intorno alla “Fiamminga”, il cui soggetto mi aveva già colpito e preso da tempo, ed in meno di un anno ho compiuto quest’atto unico. Due cose mi avevano spinto a musicarlo: l’argomento anzitutto e poi l’idea che, poiché il M. Puccini lavorava intorno al “Tabarro”, che ora ho letto esser prossimo alla rappresentazione, mi sarebbe stato più agevole, accoppiando la mia opera a quella di un celebre autore, trovare una porta aperta in qualche teatro, scivolando dietro le orme di un gran nome, anziché affrontare da solo, con un’opera di vaste proporzioni, le giustificabili diffidenze di un impresario. Le due opere, infatti, avrebbero potuto formare uno spettacolo come “Cavalleria” e “Pagliacci”. Aggiunga che la mia si presentava priva di difficoltà per una facile esecuzione essendo senza cori e con un solo personaggio importante: la protagonista. Con un bel bagaglio di speranze e con qualche illusione per la fiducia che ponevo nella mia creatura, mi recai nel Novembre del ‘915 a Milano coll’intenzione di proporre a Lei la mia nuova opera e di fargliela sentire. Ella comprenderà, dato lo stato delle mie finanze, i sacrificii cui dovetti sottopormi per affrontare tale disegno. E, per compenso, sono andato incontro alle seguenti delusioni: Prima: Ella era assente da Milano. Mi fu giocoforza attendere circa 20 giorni sulle spese, triplicando il mio sacrificio pecuniario. Seconda: la sua accoglienza al mio progetto di interessarsi del nuovo lavoro fu oltremodo glaciale se non repulsiva, senza lasciarmi adito ad alcuna speranza in rapporto a qualsiasi eventuale compenso. Terza: l’audizione al Piano, senza che Ella avesse avuto il tempo di leggere il libretto, una pessima esecuzione da parte mia perché ero già sfiduciato e sentivo di suonare quasi macchinalmente: ed il suo amabile rifiuto del quale, fra l’altro, non compresi bene il movente, né ancora mi rendo un conto esatto. Quante speranze svanite in un momento! Chi non ha provato simili stati d’animo non potrà mai comprenderli.

Tornato a Napoli, misi a dormire la “Fiamminga” di cui avevo già orchestrato una buona parte e non ci pensai più. Poiché non mi riesce di stare un sol giorno in ozio ed il lavoro costituisce l’istessa mia vita, così, abbandonando per il momento l’idea del teatro, eterno lusingatore di ogni musicista, mi accinsi allo studio della nostra gloriosa musica da camera antica, di cui avevo già un buon bagaglio di conoscenze. Oltre a quella che posseggo, ho lungamente esaminato quasi tutta la ricchissima collezione del Conservatorio. Da Carissimi al suo grande allievo Scarlatti e giù per generazioni di maestri e discepoli attraverso Leo, Durante, Jommelli, fino ai meno noti della famosa scuola napoletana, mi son reso conto di una musica meravigliosa il cui genere e il cui stile è davvero peccato siano scomparsi dalla nostra produzione moderna. Eppure quanto ci sarebbe da fare, riportando

 

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in moda forme quasi dimenticate o, almeno, profondamente snaturate dal cattivo gusto. Il pubblico, ne sono convinto, le accetterebbe con gioia e me ne ha fornito la prova l’entusiastica accoglienza fatta domenica scorsa in un concerto del violinista Serato ad una “Ciaccona” di Vitali ad un “Adagio” del Veraccini e alla celebre “Fuga” di Tartini, che costituiscono il clou del programma ed ebbero i maggiori applausi. Ora specialmente che lo spirito nazionale aleggia sopra i destini della nostra patria, dovremmo rivolgerci alle pure fonti della nostra tradizione musicale per cercarvi un modello e non chiedere in prestito ai Debussy, agli Strauss, agli Stravinsky maniere che appartengono all’indole e al temperamento dei loro popoli per trasportarle in casa nostra. Avevamo una musica nazionale, che era certo la più bella fra tutte, e l’abbiamo abbandonata! Tornarvi bisogna. Con questo miraggio, durante gli ultimi mesi di studio piacevolissimo per me, ho, per esercizio e per diletto insieme, composto alcune pagine di musica da camera fra cui, oltre a qualche aria per canto, un trio, o meglio una “Piccola Suite” per Violino, Viola e Cello; una “Sarabanda e Fuga” per Pianoforte e un’“Aria sulla 4a corda” per Violino. Le mando queste tre composizioni perché Ella le esamini. L’“Aria sulla 4a corda” mi sembra degna di considerazione per la melodia ampia e pura materiata di quella nobiltà di stile onde ebbe una volta gloria e splendore la musica italiana, prima degli infiltramenti franco-tedeschi. Ho avuto occasione di far eseguire questi tre piccoli pezzi e l’effetto sulle poche persone presenti e su me stesso è stato dei migliori. Anche dal modo onde essi sono stilisticamente e contrappuntisticamente trattati Ella potrà rendersi conto delle mie qualità di compositore. Ho voluto esporle tutto questo anzitutto per metterla a parte della mia attività durante questi ultimi tempi, e poi anche per mostrarmi sotto una luce più degna della sua considerazione di quello che non abbiano fatto fin’ora [sic] un paio di recite degli “Sperduti nel buio” (opera che costituisce un regresso nella mia produzione) e qualche ormai lontana audizione del “Ramuntcho”.

Io sono persuaso che Ella ha una conoscenza relativamente limitata a qual poco che Le è noto della mia produzione musicale, onde ha potuto formarsi un concetto non del tutto favorevole a mio riguardo, peggiorato forse da qualche apprezzamento altrui, anche espresso in buona fede, come quello del Mo Zenoni che mi fece correre a Milano per sostituire venti battute di Trillo ad altrettante di Tremolo e praticare una mezza dozzina di tagli non del tutto necessarii alla già smisurata proporzione degli atti. Ciò mi fa in certo modo comprendere il suo riserbo e la sua diffidenza che ho potuto notare da alcun tempo in qua verso di me. Ma io sento che molto e sempre meglio potrò fare, specie se l’incoraggiamento e la fiducia non mi abbandoneranno, sebbene, ora, l’appoggio morale non sia da solo più sufficiente. Se circostanze non dipendenti dalla mia volontà dovessero impormi in un prossimo futuro di abbandonare la via che perseguo con tanta abnegazione quanta cattiva fortuna da circa vent’anni, io lo farò. Ma è mio dovere e verso me stesso e verso Lei, che rappresenta in Italia il fattore massimo della produzione musicale, e ha voluto con sincera fiducia incoraggiare i miei primi passi, di dirle la condizione in cui ora vengo a trovarmi e che m’impone di prendere una decisione irreparabile. Io faccio appello alla sua coscienza di gentiluomo e alla sua competenza di Editore nel chiederle una franca parola da cui io possa far dipendere ogni determinazione. Se Ella crede sinceramente che del musicista Donaudy non ce ne sia bisogno, me lo dica senza esitazione; ma se pensa e stima il contrario, faccia il possibile per venire in mio aiuto in questo momento e mi sorregga, almeno fino al giorno in cui la tanto sospirata rappresentazione del “Ramuntcho” non Le dia la prova migliore di essere stato oltre che un buon profeta anche e soprattutto un salvatore. I musicisti poveri e ignoti hanno trovato spesso appoggio in un mecenate. A me questa sorte non è potuta venire a causa della mia precedente situazione. Ora è troppo tardi e, d’altra parte, pochi ci crederebbero. Mio padre non era un fornaio né un contadino. Pensi che alla mia età, un’occupazione che dia i mezzi anche i più modesti per vivere non la posso cercare in una qualsiasi carriera libera, ma purtroppo mi è necessario ricorrere ad un impiego. Due o trecento

 

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lire al mese, probabilmente, potrò guadagnarle in una Banca o in un’Azienda qualsiasi, e se debbo condurre la vita del Travet lo farò solo perché si tratta di contribuire al mantenimento della mia piccola famiglia; ma creda pure che ciò sarà un grande strazio per l’animo mio. Certo, pensando alla penosa esistenza che conduco ora, anche un modesto reddito di quel genere è una fortuna per me. Ella non può immaginare le privazioni a cui vado incontro ogni giorno di più. Gliene risparmio la dolorosa descrizione e, d’altra parte, Ella non ha che da chiederne al Signor Valcarenghi che abita nella medesima casa e la cui famiglia ne è in piccolissima parte testimone, in quello almeno che non si può celare. Perché, per il resto, la dignità che è innata in ogni persona di origine agiata copre molti dettagli. Mi rendo perfettamente conto che il momento è assai difficile per tutti e che la sua Ditta ha grandemente subito il contraccolpo dello stato di guerra. È appunto per questo che l’aiuto che Ella potrà, se lo vorrà, darmi ha un’importanza superiore a quella che è consuetudine della sua Casa in rapporto ai Maestri. E d’altra parte io non Le chiedo un anticipo né un sussidio; ma del lavoro, anche modestamente retribuito. O con composizioni, o con riduzioni e trascrizioni, o con altro che Ella stimerà più conveniente, io potrei corrispondere in una maniera qualsiasi al sacrificio che Ella vorrebbe fare a mio vantaggio. Perché io comprendo che non è un affare quello che le propongo, ma quasi certo il contrario, dal punto di vista commerciale. Ma Ella questo punto di vista vorrà non considerare nel venire in mio aiuto. D’altra parte non si tratta di un lungo impegno, sine die. Almeno fino a quando la mia opera vedrà la luce. Almeno fino allora io possa vivere nella illusione e lavorare nella calma e nella fiducia di un migliore avvenire. Quello che io Le chiedo non è che un chicco di grano in un mulino a paragone degli impegni che suole assumere la sua Ditta; ma se anche dovesse essere un lieve aggravio, io spero ardentemente che Ella vorrà farlo di buon grado.

Mi vorrà perdonare questa voluminosa lettera. Io avevo pregato il Sig. Valcarenghi di parlarle di tutto ciò, ma ho preferito poi di scriverle perché Ella avesse a rendersi un conto più preciso di quanto son venuto ad esporle prima di prendere una decisione, come pure per pregarla di leggere i tre piccoli pezzi che oggi stesso Le spedisco e di cui Le sarei grato se Ella volesse pubblicare anche la sola “Aria” per Violino alla quale tengo molto ed è di un certo interesse, se si considera che pezzi per Violino sulla quarta corda ce ne sono pochissimi.

Mi sembra di aver esaurito tutto quel che volevo dirle, ed anche abbastanza la sua pazienza. Ma Ella troverà nel suo buon cuore un gesto di perdono, considerando soprattutto le gravi ragioni per cui ho dovuto recarle disturbo. Senza incomodarsi a scrivermi, Le sarò grato se Ella vorrà riferire al Sig. Valcarenghi, che trovasi in questi giorni a Milano, la risposta che crederà darmi e che egli mi comunicherà a sua volta.

La saluto assai cordialmente e La prego di credere alla mia affettuosa stima.

Suo obbmo

Stefano Donaudy

Transcription by Simone Majocchi

Typology lettera
Sub-tipology letter
Writing manuscript
Language italian

Physical Attributes
No. Sheets 4
Size 210 X 135 mm

Letter name LLET006664